L’avvio del 2016 è stato all’insegna della passione per i mercati azionari globali e non mancano argomenti per pensare che non sia ancora finita. Dal rallentamento economico della Cina al rischio deflazione in Europa, passando per le azioni di politica monetaria delle banche centrali e i dubbi sull’economia americana, quest’anno gli elementi da monitorare per comprendere l’evoluzione dei mercati sono molteplici e non sempre correlati.

Ad essi si è aggiunto un nuovo compagno di viaggio: il petrolio.

Osservare il greggio come riferimento per i mercati azionari non è infatti una proxy molto utilizzata dagli investitori. Eccezion fatta per quei paesi fortemente dipendenti dalla materia prima, storicamente il legame tra l’equity e l’oil tende ad essere limitato e solo in poche occasioni ha assunto una forza significativa.

A titolo di esempio, si prendano in considerazione alcuni dei principali indici europei e statunitensi – il FTSE 100, l’Eurostoxx 50, il S&P500 – e i due prodotti di riferimento per il mercato petrolifero nelle due aree economiche, rispettivamente il Brent e il WTI (al momento in cui si scrive quotano intorno ai 41 e 40 dollari al barile). Negli ultimi 30 anni, la correlazione a 12 mesi è stata superiore al 60% solo in 7 occasioni per il S&P500, in 8 per l’Eurostoxx50 e il FTSE100. In quest’ultimo caso si consideri che l’indice inglese presenta una rilevante concentrazione di aziende operative nel settore petrolifero.

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Negli ultimi 15 anni inoltre, la correlazione si è rivelata molto forte nella prima fase della grande crisi, dal 2009 al 2011, mentre è scesa costantemente negli anni successivi: fino ad essere nel 2015 leggermente positiva tra FTSE100 e Brent (+16%), addirittura negativa (-45% e -24%) tra S&P500 e WTI e tra Eurostoxx e Brent.

Tuttavia, negli ultimi mesi qualcosa è cambiato…I trend tra i corsi azionari e il petrolio si sono avvicinati fino a stabilire un legame sempre più stretto: in particolare, la correlazione tra il Brent e il FTSE100 (l’indice maggiormente influenzato dal settore oil) da metà novembre ha superato il 50%, fino all’attuale 90%. Nel caso degli indici americano ed europeo la forza dei legami si attesta sopra il 70% e l’80%.

Se si osserva la correlazione a 3 mesi risulta ancora più evidente come in questo primo quarto del 2016 azioni e petrolio abbiano proceduto quasi a braccetto, essendo su livelli intorno al 90% per quanto riguarda il S&P500 e poco inferiori per gli indici europei. Solo l’Eurostoxx sembra aver allentato questo legame nelle ultime due settimane, complici le recenti nuove disposizioni della politica monetaria della BCE, scendendo anche sotto il 60%.

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Tale fenomeno non è motivato solo da movimenti speculativi, ma ha ragioni più solide. Il crollo dei prezzi, che poteva essere quasi ininfluente o addirittura benefico per l’economia globale, soprattutto per i paesi importatori netti come quelli europei, negli ultimi mesi ha raggiunto dimensioni che stanno portando al rischio di assistere ad effetti negativi superiori ai benefici sperati. I paesi produttori si sono trovati a fronteggiare deficit di bilancio per molti non sostenibili nel medio termine: mentre l’Arabia Saudita, che ha pur segnato un record con una politica di bilancio restrittiva (cui non era abituata…), avrebbe la solidità per reggere l’urto di un mercato a livelli così bassi, lo stesso non si può dire per altre nazioni. Il Venezuela sta affrontando una crisi profondissima, acuita dal calo della sua principale fonte di reddito, e più tempo passa prima di un recupero stabile del mercato, più vede inevitabile un default che è già vicino. La Russia è un’altra nazione le cui sorti sono fortemente legate al greggio, e ancora di più dopo essere stata soggetta alle sanzioni che ne limitano il commercio con i paesi occidentali: circa la metà dei suoi introiti dipende da esso e un altro anno con quotazioni ai livelli del 2015 (soprattutto inizio 2016) condurrebbe all’azzeramento delle riserve monetarie del Paese.

Queste situazioni sono sintomatiche di rischi di contagio di eventuali default o crisi profonde di questi Paesi verso l’economia globale, che subirebbe quindi un contraccolpo negativo e superiore ai benefici derivanti da minori costi di approvvigionamento energetico.

Inoltre, è sì vero che i Paesi produttori più ricchi hanno le spalle abbastanza larghe per sopportare un petrolio a (o sotto i) 30 dollari, ma è altrettanto vero che per coprire i deficit di bilancio devono ricorrere a politiche fiscali restrittive e utilizzare la liquidità detenuta nei propri fondi sovrani. Nel primo caso, si registra il rischio che politiche fiscali cui tali paesi sono decisamente disabituati portino nel medio-lungo termine a disagi e disordini sociali che potrebbero comprometterne la stabilità politica. Nel secondo caso, più tangibile e ravvicinato nel tempo, i fondi sovrani si trovano a dover smobilizzare parte dei propri investimenti, vendendo quindi titoli e attività finanziarie riconducibili, tra gli altri, a Europa e Stati Uniti.

Nel contesto appena descritto non mancano i motivi di preoccupazione e si spiega almeno in parte come mai, nonostante la guerra dei prezzi petroliferi sia iniziata quasi due anni orsono, gli operatori sui mercati azionari abbiano iniziato a condizionare le proprie mosse in modo così forte all’andamento dei prezzi del greggio e alle voci che lo alimentano.

Possiamo dire quindi che per il 2016 il petrolio è e sarà uno dei principali indicatori di Risk-on / Risk-off per gli investitori azionari. Per quanto vi siano altri fattori che ne condizioneranno le performance (si veda le recenti scelte di politica monetaria della BCE), i mercati continueranno a guardare con attenzione a quanto accadrà nelle relazioni tra paesi produttori di petrolio, agli eventuali accordi che potranno essere raggiunti (se lo saranno), e all’evoluzione dei fondamentali di produzione e domanda di mercato. Le incertezze riguardanti eventuali accordi su tagli di produzione e le voci che si rincorrono sul tema alimentano inoltre un’alta volatilità che non risparmia (per il legame forte che si è creato) i titoli azionari.

Gli operatori di mercato hanno di fronte mesi intensi e dovranno tenere conto di numerosi fattori: avere un occhio di riguardo all’oro nero sarà fondamentale per decidere se e quando investire, nonché con quali aspettative (di rialzo o ribasso). Di certo avranno tutti segnato sul calendario l’appuntamento del 17 aprile previsto tra i paesi OPEC e alcuni esterni al cartello, dal quale dovrebbero emergere segnali chiarificatori sulle future mosse dei principali produttori mondiali. I recenti rialzi dei prezzi, che hanno allontanato il Brent e il WTI dai minimi di inizio anno, mostrano un certo ottimismo circa il raggiungimento di un accordo per limitare l’eccesso di offerta sul mercato. Tuttavia, permane una certa opacità (tra dichiarazioni discordanti e rapporti tesi tra diversi produttori) che suggerisce di prestare attenzione a questi movimenti di breve termine e, almeno finchè non vi saranno dichiarazioni ufficiali, di continuare a focalizzarsi sui fondamentali del mercato, che rappresentano uno strumento di valutazione più solido per decidere se e in che momento prendere una posizione sui mercati.

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