Tra le nevi della svizzera, a Davos, lunedì si è aperto il 47° World Economic Forum (WEF) che durerà fino a venerdì 20 gennaio con una fitta agenda di conferenze che da la possibilità ai personaggi più influenti del business, della politica ma anche della cultura mondiale di incontrarsi e confrontarsi tra speech pubblici e tavole rotonde strettamente a porte chiuse.
Il focus riguarda “la leadership preparata e responsabile” per affrontare i principali elementi di rischio emersi dal Global Risks Reports, il rapporto del WEF che valuta la probabilità e il potenziale impatto di 30 fattori di rischio all’interno di cinque macro-aree: economica, ambientale, geopolitica, sociale e tecnologica. Nonostante i buoni segnali di transizione verso un’economia a minori emissioni visti nel corso del 2016 – Conferenza di Parigi, Conferenza sul clima di Marrakech, protocollo di Montreal – il cambiamento climatico resta il rischio oggetto di maggiore preoccupazione, spinto dagli eventi meteorologici estremi e dai disastri naturali. Particolare attenzione è rivolta anche al fenomeno sociale delle migrazioni di massa alimentate dalle tensioni geopolitiche e da attacchi terroristici dilaganti, la sfida tecnologica della robotizzazione del lavoro – definita da molti la quarta rivoluzione industriale – a fronte di un’elevata disoccupazione, di un preoccupante trend demografico di invecchiamento globale e di disparità sociali crescenti, ma soprattutto le minacce di un Europa populista, termine che leggendo tra le righe – in realtà neanche troppo –delle dichiarazioni dei protagonisti al forum sembra così temuto da essere stato bandito tra le alpi svizzere.
Ancor prima della cerimonia inaugurale temi di tale rilevanza apparivano oscurati dall’ombra mediatica di Donald Trump, che non ha risparmiato nei giorni scorsi dichiarazioni dure; tuttavia sono “bastate” le parole di Xi Jinping, primo presidente cinese a prendere parte al forum, a illuminare le vallate del Cantone dei Grigioni. Il leader della Repubblica Popolare Cinese ha colto al balzo la palla lanciata dal neo-presidente USA ergendosi a paladino di libero scambio e globalizzazione con parole che vanno in direzione opposta a quelle di Trump, che nei giorni scorsi ha parlato di un dollaro troppo forte, a fronte di uno yuan mantenuto basso dalla Cina che sta “cadendo come un sasso”; la volontà è quella di dare un messaggio di stabilità e di apertura al commercio internazionale. Il riferimento alla politica economica protezionista – “una stanza buia che tiene fuori vento e pioggia e il vento, ma anche luce e aria” – verso cui sembra muoversi la nuova amministrazione statunitense è ben poco velato, così come lo è la spinta verso nuovi accordi commerciali internazionali che nel corso degli ultimi anni non hanno saputo tenere il passo di una globalizzazione che a sua volta non può e non deve essere individuata come la causa di tutti mali; se da un lato genera nuove problematiche e amplia le interconnessioni tra i fattori di rischio dall’altro genera nuove opportunità.
La Cina si è vestita a stelle e strisce facendosi portabandiera del liberismo? In realtà le dichiarazioni di Xi per molti aspetti risultano intrise di ipocrisia, inserendosi strategicamente all’interno della battaglia portata avanti da anni per ottenere il riconoscimento cruciale di economia di mercato. La politica economica cinese, e ancor più quella monetaria, restano indubbiamente dirigiste con un sostegno statale all’economia costante; tuttavia le minacce populiste alla vigilia degli importanti appuntamenti politici dei prossimi mesi in Francia, Germania e Olanda, dopo il no al referendum costituzionale in Italia e quella che di fatto è diventata un “Hard Brexit”, hanno evidenziato la necessità da parte dei leader democratici europei – Angela Merkel, duramente attaccata dalle parole di Trump, su tutti – di stabilità, anche se basata sul costume liberista indossato dal dragone cinese.
Per anni la Cina ha svalutato il renminbi per garantire la competitività delle proprie imprese e il dollaro forte non è certo un’invenzione di Trump, piuttosto un dato di fatto. Ciò che stona è che a commentare il cambio valutario sia il neo-eletto presidente degli Stati Uniti, che storicamente tende ad astenersi da questo tipo di considerazioni, a maggior ragione nella fase di transizione verso la nuova amministrazione di governo. Tuttavia il rafforzamento del biglietto verde registratosi nel corso del 2016 ha generato forti pressioni sull’economia cinese, e oggi il problema valutario sembra opposto: occorre sostenere lo yuan a tutti i costi.
Andamento del cambio dollaro/yuan nel corso dell’ultimo anno: dal 1/01/2016 il dollaro ha guadagnato il 6.28%.
Fonte: Yahoo Finance
Dal post crisi 2008 la Cina ha iniziato ad accumulare debito principalmente attraverso il sistema bancario, istruito e incentivato dal governo a concedere credito, piuttosto che ad immettere liquidità gonfiando il bilancio pubblico di obbligazioni – per contrastare il suo rallentamento fisiologico in termini di crescita – arrivando ad avere un disequilibrio tra la quantità di CNY in circolazione e il suo valore, che rimanendo praticamente lo stesso del 2008 ha aumentato il potere di acquisto della popolazione ma ha anche generato la fuga di capitali dall’economia nazionale.
La scelta monetaria non è semplice: alzare i tassi di interesse per attrarre investimenti rischia di generare pesanti conseguenze su mercati cruciali come quello immobiliare – che nel 2016 ha spinto la crescita dopo un inizio di anno traballante ed in cui, escluso il settore finanziario, risiede un’ingente fetta di debito pari a circa 9 trilioni di dollari, ovvero quasi la metà del totale – ma rischia di venire accelerato da un processo di normalizzazione che ha preso il via con l’ultimo rialzo dei tassi da parte della Fed (che verosimilmente proseguirà nel corso del 2017). Continuare ad attingere dalle riserve ufficiali in valuta estera, già crollate drasticamente rispetto ad un paio di anni fa – ad oggi intorno ai 3 mila miliardi di dollari, il livello più basso dal 2011 – e vendere titoli del Tesoro americano – ad ottobre il portafoglio ridotto a “soli” 1.120 miliardi di T-bond ha portato il Giappone al sorpasso al secondo posto tra i detentori di debito USA – non può essere una soluzione nel lungo periodo. Nel frattempo da domenica 1° gennaio è il numero di valute che compongono il paniere CFETS – China Foreign Exchange Trade System – a determinare il valore della divisa cinese: passerà da 13 a 24, rendendo più facile la gestione della stabilità dello yuan rispetto ai movimenti del biglietto verde.
Andamento del PIL e della dimensione dell’attivo del sistema bancario: il gap tra le due misure ha raggiunto dimensioni tali da rendere il settore bancario estremamente fragile.
Percentuale di debito direttamente e indirettamente riferita al mercato immobiliare cinese.
Ecco perché per la prima volta la Cina sembra realmente propensa ad accettare un rallentamento della crescita restando al di sotto dell’obiettivo annuo arbitrario del +6,5%/+7% di PIL; quella cinese si sta trasformando da un’economia di export ad una di servizi – che per la prima volta hanno pesato per più di meta della crescita – e consumi interni, e forse lo sta facendo troppo velocemente, con investimenti esageratamente ingenti e un’apertura eccessiva alle multinazionali per i tempi della burocrazia cinese. Xi ha parlato di una politica monetaria cauta e neutrale per il 2017, che dovrebbe consentire degli aggiustamenti strutturali nel lungo termine – come ha evidenziato il Fondo Monetario Internazionale vanno dal finanziamento di imprese insolventi al riconoscimento dell’entità di NPLs, passando per la mitigazione dei costi sociali, ma appaiono ancora gestibili a patto di interventi tempestivi – e in particolare di controllare il debito e l’instabilità sui mercati finanziari. Parole che ancora una volta hanno il sapore di apertura verso l’UE, controcorrente rispetto alle minacce di tariffe sulle importazioni e alle dure parole sulla questione Taiwan provenienti dal tycoon newyorkese, e mettono in guardia la stessa opinione pubblica cinese che nei giorni scorsi sembrava essere sul piede di guerra sui rischi di una tanto temuta “trade war” guidata dall’onda populista di matrice trumpiana.
Variazione percentuale annua del prodotto interno lordo cinese negli ultimi 10 anni e prevista per il biennio 2017/2018
Che siano i motivi di pianificazione economica interna o la necessità del supporto internazionale in una prospettiva di tensione con gli Stati Uniti a spingere ad un’apertura moderata e liberista della Cina portatrice della bandiera della globalizzazione a Davos, poco importa; il 2017 sarà un anno cruciale per le sorti dell’economia globale e la Cina, anche se più per necessità che per virtù, lo ha iniziato indossando l’abito di leader fantasia a stelle e strisce.
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