Da quando l’atteso meeting di Doha di aprile si è concluso con un nulla di fatto, con i paesi OPEC che non hanno trovato un’intesa per limitare i propri livelli di output, la reazione dei mercati ha sorpreso gli operatori del settore. Se nelle prime ore successive alla chiusura dell’incontro i prezzi del petrolio ritracciavano da un trend che aveva basato la sua spinta sulle speranze di un finale diverso da quello poi avveratosi, a partire dai giorni successivi hanno iniziato a salire con forza, tornando a toccare e poi superare quota 45$/barile. La performance registrata si è rivelata positiva rispetto ai minimi di febbraio di circa il 60% per il brent e di circa il 70% per il WTI, mentre a partire dal 18 aprile (data della sessione di mercato immediatamente successiva al vertice di Doha) è superiore al 10%.
Quali sono i motivi di questa ulteriore spinta? Se in molti riponevano le loro speranze nell’incontro di Doha per vedere i prezzi del petrolio riprendere quota, le posizioni ribassiste non hanno sopraffatto quelle rialziste come sarebbe stato lecito aspettarsi, dato il sostanziale nulla di fatto con cui si è concluso l’incontro.
D’altro canto, i fondamentali non sembrano giustificare la forza del trend in atto. Lo squilibrio tra domanda ed offerta di petrolio non è ancora assorbito, come dimostrano i dati pubblicati dall’IEA, da cui emerge che nel primo trimestre 2016 l’eccesso di offerta è nell’ordine di 1.6milioni di barili giornalieri. La produzione dell’OPEC non accenna a frenare nonostante sia su valori massimi; e, come dimostra il grafico sottostante le previsioni (EIA) al 2017 sono per una continua crescita dell’output.
Ulteriori barili stanno arrivando inoltre dall’Iran, che ha già aumentato la produzione di 400mila barili/giorno da inizio anno, compensando oltremodo la riduzione in atto negli Stati Uniti (ferma a poco più di 110mila barili/giorno da dicembre 2015). Nuovi record di produzione sono stati registrati anche in Russia, ai massimi da oltre 20 anni. E in tutto questo l’Arabia Saudita non ha affatto escluso di incrementare ulteriormente la propria attività estrattiva.
Insomma, l’offerta del mercato non accenna a diminuire, a fronte di una domanda che non cresce agli stessi ritmi.Di fronte a questi dati il mercato ha reagito con più ottimismo di quanto la realtà suggerisse. Gli operatori hanno eletto quale driver principale delle loro mosse le pubblicazioni dei dati che arrivano dagli Stati Uniti: le trivelle attive e le scorte settimanali. Nel primo caso è vista positivamente la netta riduzione in atto che ha riportato il numero di trivelle attive ai livelli del 2009; la conseguenza è una riduzione futura della produzione complessiva di shale oil americano, che tuttavia non è detto permetta di vedere una riduzione dell’output globale sul mercato, per il ritorno dell’Iran e il continuo incremento promosso dagli altri grandi produttori.
Nel secondo caso, il mercato ha accolto alcune letture migliori delle attese con un entusiasmo superiore alla reazione registrata di fronte a pubblicazioni di segno opposto; la realtà è che le scorte americane continuano a crescere, macinando record su record.
Tutto ciò ci suggerisce che il mercato sia spinto in parte da fattori speculativi – dopo i minimi di inizio 2016 le scommesse su un rimbalzo dei prezzi erano decisamente appetibili – in parte da aspettative di un riassorbimento del divario tra domanda e offerta, basate però su una selezione parziale di dati.
La nostra opinione è che sia ancora presto per essere fiduciosi tanto quanto sono stati finora gli operatori. I fondamentali attualmente dicono che la riduzione dell’attività estrattiva negli Stati Uniti non basta a far calare il mare di petrolio che si sta riversando sui mercati, sia a causa del continuo aumento della produzione negli altri paesi (dall’Iran all’Arabia Saudita, passando per la Russia), sia per l’ammontare di scorte ancora da smaltire e che non tende a rallentare. Inoltre, dal lato della domanda, prevista in aumento ma a ritmi lenti, le stime di crescita globale ridotte ad ogni revisione non offrono spunti da cui trarre speranze di un’accelerazione improvvisa che aiuti a compensare più velocemente l’offerta di greggio.
Per questi motivi rimaniamo prudenti sull’evoluzione dei prezzi nei mesi a venire e confermiamo il prezzo obiettivo evidenziato nell’Oil Outlook 2016 (nel range tra 40 e 45$/barile per fine anno); le future pubblicazioni dei dati su produzione e scorte, non solo statunitensi ma anche e soprattutto riguardante i paesi OPEC e gli altri big player, potranno alimentare la volatilità con movimenti correttivi significativi. Difficilmente si rivedrà quota 30$, ma la risalita è ancora lunga e irta di ostacoli.
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