A distanza di un mese e dopo aver visto i prezzi avvicinarsi, superare (per poco) e ritracciare velocemente, si può ragionevolmente affermare che quota 50$ è in questa fase una forte resistenza per il mercato petrolifero. Il WTI e il Brent, infatti, dopo aver superato tale soglia ai primi di giugno hanno tentato più volte di oltrepassarla nuovamente, ma si sono fermati come di fronte a un muro invalicabile.

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Nel nostro precedente pezzo (Petrolio: attenti al rialzo) avevamo messo in guardia sul rally in atto e su quello che a nostro avviso era un eccessivo ottimismo degli operatori. Questi ultimi sembrano ora tornare (almeno in parte) sui propri passi: come riporta Bloomberg in un suo recente articolo i money manager hanno tagliato le proprie scommesse sul rialzo delle quotazioni ai livelli più bassi degli ultimi quattro mesi, sulla base di dati che suggeriscono di mantenere una certa prudenza.
Analizziamo i dati. A fare la parte del leone sono sempre le prospettive di produzione negli Stati Uniti, nei principali paesi OPEC e in Russia. Se da un lato stiamo osservando una riduzione dell’output made in USA (attualmente a meno di 8,5 milioni di barili al giorno), che ha contribuito al recente trend rialzista dei prezzi, dall’altro emerge come il calo sia compensato dalla crescita produttiva dell’OPEC e della Russia. Quest’ultima continua la sua rincorsa verso nuovi record (come si può notare dal grafico sottostante il trend è in continua crescita, oltre i 10,5 milioni di barili al giorno), aumentando conseguentemente anche l’export; il cartello dal canto suo ha ripreso ad aumentare l’output negli ultimi mesi, trainato dai suoi principali azionisti.

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In particolare, l’Iran sta aumentando vertiginosamente la produzione, che attualmente si attesta a circa 3,5 milioni di barili al giorno; l’incremento è pari al 29% rispetto a fine 2015.

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Allo stesso modo l’Arabia Saudita si è riportata su livelli record, a 10,3 milioni di barili al giorno, oltre il picco dell’estate 2015, quando la produzione era giunta a 10,25 milioni di barili.

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Se si analizzano le dichiarazioni fatte nei mesi passati dai rappresentanti di questi Paesi, quanto si osserva non deve stupire: era ampiamente annunciato.
Ma forse altri due dati provenienti dagli Stati Uniti hanno portato gli operatori a un ridimensionato entusiasmo. Il primo è quello inerente le scorte, che nonostante un relativo calo si mantengono stabilmente su livelli record (524,4 milioni di barili circa).

scorteUSA

L’informazione che offre tale dato è rilevante, se si considera il calo della produzione in atto nel Paese: se da fine 2015 ad oggi l’output statunitense è sceso di circa il 7%, all’incirca della stessa percentuale sono cresciute le scorte. Ciò significa che il petrolio “stoccato” e pronto a essere venduto è ancora tantissimo e lungi dall’essere smaltito, pure a fronte di una ridotta attività dei giacimenti e delle trivelle.
Già, le trivelle… Il mercato si stava abituando alla seguente relazione: più scendevano i prezzi e l’OPEC perseguiva la propria strategia di conservazione delle quote di mercato, più il numero di trivelle attive oltre l’Atlantico scendeva. In effetti si è attestato su livelli inferiori addirittura ai minimi del 1999.
Ma la ripresa sostenuta dei prezzi ha giocato a favore anche dei produttori americani, che nell’ultimo mese hanno posto fine al crollo e rimesso in attività alcune delle proprie trivelle. Per quanto in termini assoluti siano coinvolti pochi pozzi alla volta, la crescita in termini relativi è di circa il 9% dai minimi assoluti di maggio. Questo evento rappresenta un alert per chi scommetteva sulla fine inerme dei produttori statunitensi e allo stesso tempo un segnale di un possibile futuro stop del calo dell’output osservato fino ad oggi.

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Sarà quindi necessario per chiunque voglia prendere una posizione sull’oro nero monitorare l’evoluzione delle trivelle oltre che l’andamento della produzione.
I dati ci suggeriscono che l’offerta globale di petrolio è lontana dall’essere calmierata, e tanto più lo sarà se i segnali provenienti dalle trivelle non si riveleranno un fuoco di paglia, bensì la fine della frenata produttiva americana. La combinazione con la crescita continua dell’output nei principali produttori, OPEC e non OPEC, e con l’elevato livello di scorte ancora in essere è tale da frenare ogni istinto ottimista di vedere le quotazioni del petrolio stabilmente sopra la soglia di 50$ nel breve termine.

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