La partita tra i membri dell’OPEC, dopo varie mosse, carte truccate e bluff, è uscita dallo stallo: a Vienna i produttori di petrolio hanno confermato e formalizzato l’accordo annunciato ad Algeri e su cui buoni e cattivi presentimenti si sono alternati a più riprese – ripercuotendosi sulla volatilità dei prezzi. La produzione di petrolio verrà ridotta di circa 1,2 milioni di barili al giorno – a 32,5 milioni – con implementazione a partire da gennaio e per la durata di 6 mesi (estendibili per altri 6). Si tratta di un taglio di circa il 3,7% rispetto ai livelli attuali.

A sbloccare l’impasse è stata la decisione di concedere all’Iran di incrementare la propria produzione prima di porvi un tetto. Dal documento di intesa emerge come il giocatore di Teheran sia riuscito evidentemente a mettere spalle al muro gli avversari e ottenere la condizione migliore cui potesse ambire: sarà l’unico paese che potrà continuare a estrarre greggio fino a un massimo di 3,9 milioni di barili al giorno. Ciò assume ancora più rilevanza se si pensa che a Doha, in aprile, proprio lo stallo tra Arabia Saudita e Iran aveva fatto naufragare ogni possibilità di raggiungere un accordo. Questa volta, il giocatore di Riyadh sembra aver perso la mano, trovandosi a fare concessioni allo storico rivale e, inoltre, a farsi carico dell’aggiustamento più ampio di tutto il gruppo – 486 mila barili, ovvero il 42% del totale. Si noti tuttavia che lo sforzo rapportato alla produzione interna non è superiore a quello richiesto agli altri paesi, anche i più piccoli: in tal caso l’Arabia Saudita mette sul tavolo il 4,6% circa del proprio output, al pari degli altri membri del cartello, compreso l’Iraq – l’altro giocatore che stava per far saltare la partita – ed escluso ovviamente l’Iran.

Anche lo spettatore russo ha nuovamente cambiato idea e ha deciso di partecipare a una mano di questo poker di oro nero. Dopo aver dichiarato la propria disponibilità a partecipare a un taglio condiviso ed essersi smentito, prediligendo solo un congelamento della produzione, è tornato ancora sui propri passi, mettendo sul tavolo un taglio di 600 mila barili al giorno. In tal modo la riduzione complessiva dell’offerta petrolifera sul mercato dovrebbe scendere di complessivi 1,8 milioni di barili. Considerato che la crescita della domanda per il prossimo anno è stimata dall’IEA in circa 1,2 milioni di barili, questo taglio è sicuramente benefico in un’ottica di ribilanciamento del mercato.

Resta da capire quanto: il calo dell’offerta da parte dell’OPEC e della Russia mette al riparo da un nuovo crollo dei prezzi, che in mancanza di un’intesa avrebbero potuto riavvicinarsi pericolosamente in area 40$/Bbl prima e 30$/Bbl poi. L’eccesso di greggio sul mercato dovrebbe al contempo ridursi, ma non è detto che si riassorba completamente. Si è dimenticato infatti, nelle prime ore post chiusura del meeting, che c’è un altro competitor pronto a rientrare in partita: gli Stati Uniti hanno da pochi mesi intrapreso nuovamente la strada delle trivellazioni e un miglioramento delle condizioni di mercato farà solo il bene del loro business basato sullo shale oil. Per tale motivo vediamo improbabile non solo un crollo dei prezzi verso i minimi di febbraio, ma anche un eccessivo rialzo. Il mercato ha festeggiato, arrivando a guadagnare ieri fino al +10% – con Brent e WTI di nuovo in area 50$/Bbl – ma presto dovrà prezzare i reali effetti dei tagli decisi a Vienna e il ritorno dei barili a stelle e strisce. Nella nostra view individuiamo un range di movimento delle quotazioni compreso tra i 45 e i 55$/Bbl, e non vediamo ancora elementi che giustifichino valori più alti. Gli investitori siano quindi cauti e non si facciano sopraffare dall’entusiasmo. A Vienna si è probabilmente evitato il peggio, ma altre mani sono ancora da giocare nella partita del petrolio.

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