Nel mondo delle commodity, da due anni almeno le attenzioni di investitori e analisti sono concentrate su un obiettivo: il petrolio. Tuttavia, il mercato delle materie prime non è fatto di solo greggio, e quest’ultimo non è neanche il solo ad aver conosciuto prima il crollo dei prezzi e poi una fase di alta volatilità. In generale, tutto il comparto sta subendo da anni un ridimensionamento che stenta a cambiare tendenza, complici il rallentamento economico e l’evoluzione in ambito energetico che sta spingendo man mano in un angolo quelle commodity ormai troppo inquinanti.
Tra tutti, un caso particolare è rappresentato dal carbone. Questo combustibile ha vissuto un crollo dei prezzi tanto lungo e doloroso quanto il mercato petrolifero, con dure conseguenze per i produttori e persino la bancarotta di alcuni colossi del settore – tra cui gli statunitensi Peabody Energy e Arch Coal.
Dal picco del 2008 i prezzi sono arrivati a perdere oltre il 70%, passando da oltre 200 dollari a tonnellata a poco più di 40 dollari e toccando i minimi nel primo trimestre di quest’anno – seguendo un copione simile a quello del petrolio (di seguito il grafico delle quotazioni del first future quotato su ICE Exchange del carbone consegnato presso lo scalo di Rotterdam).
La flessione è nata non solo dalla debolezza che ha colpito tutte le materie prime dopo gli anni del boom – a causa della crisi economica e del rallentamento della domanda globale – ma è stata accentuata anche dalla concorrenza di altre fonti, quali le rinnovabili e il gas naturale; quest’ultimo compete con il carbone nella produzione di energia elettrica, e il suo basso costo lo ha reso una più che valida alternativa, indebolendo ulteriormente le quotazioni della commodity più inquinante.
Non allo stesso modo del greggio, il carbone ha rialzato la testa dopo il raggiungimento dei minimi di un trend negativo da ormai 8 anni. Mentre il primo si è ripreso fino a toccare la soglia dei 50 dollari al barile, per poi ritracciare e ritentare l’attacco rialzista nelle ultime settimane, il secondo ha mantenuto un andamento debole. Almeno fino a giugno, quando i prezzi hanno cominciato a correre, arrivando a recuperare il 40% rispetto ai valori del primo trimestre.
Il rimbalzo è quasi fisiologico quando il mercato tocca il fondo, ma ha trovato forza grazie ad alcuni eventi che hanno effetto sia sull’offerta sia sulla domanda globali. La spinta decisiva proviene dalla Cina. Il paese del dragone, allo stesso tempo il principale consumatore e produttore di carbone, ha adottato una nuova regolamentazione che prevede la riduzione delle giornate lavorative annuali nelle miniere da 330 a 276, oltre che il divieto di avviare nuovi investimenti nel settore minerario per i prossimi tre anni. Allo stesso tempo, sono stati previsti aiuti finanziari per tutte le imprese che decideranno di chiudere le attività a seguito delle restrizioni. L’obiettivo prefisso dal governo è ridurre la produzione complessiva all’interno del paese, in conseguenza del rallentamento economico che ha portato a un calo dell’utilizzo del combustibile nell’ultimo biennio e del passaggio in atto verso una politica energetica meno inquinante e più rivolta alle fonti rinnovabili.
L’impatto derivante dalle decisioni del governo centrale è stato stimato tra il 16 e il 20% in termini di minore output, il che ha avuto immediatamente un effetto benefico sulle quotazioni di mercato.
La chiusura delle miniere non è comunque fenomeno esclusivamente cinese: nel resto del mondo la crisi economica ha portato all’interruzione di numerose attività minerarie. Negli Stati Uniti ad esempio la produzione di carbone è in calo costante dal 2015 (-10% rispetto ai 12 mesi precedenti), con un picco negativo nei primi tre mesi del 2016, durante i quali si è rilevata la produzione più bassa degli ultimi 35 anni (-17% la variazione su base trimestrale). La serie di fallimenti di diverse società minerarie è un’ulteriore attestazione dello stato di difficoltà da cui gioco forza ne deriva un calo dell’offerta sul mercato.
Infine, l’ultimo elemento che ha giocato a favore del boom dei prezzi: la domanda. Gli ultimi mesi hanno evidenziato un rafforzamento delle importazioni di carbone in particolare dai paesi asiatici – dal Giappone alla Corea del Sud passando per India e Filippine – che hanno spinto le aziende fornitrici ad alzare anche le proprie stime sui prezzi di vendita e sui ricavi.
Queste premesse solitamente suggeriscono l’inizio di una nuova fase positiva per un asset che arriva da una lunga depressione: meno output e più domanda sono la combinazione perfetta per ridurre squilibri e sovracapacità produttiva, quindi ravvivare le quotazioni.
Non è il caso del carbone. La sua debolezza a lungo termine deriva non solo dalle deboli condizioni economiche globali, ma anche da chiari indirizzi dati alle politiche ambientali ed energetiche dai governi dei principali paesi. Politiche che sono supportate da un lato dagli accordi internazionali siglati al fine di limitare inquinamento e innalzamento delle temperature globali, dall’altro dall’espansione pressochè costante delle energie rinnovabili.
Per quanto riguarda l’obiettivo perseguito dalle politiche sul clima, il suo futuro raggiungimento passa inevitabilmente per la rinuncia a quei combustibili fossili il cui impatto inquinante è maggiore; recenti studi condotti da vari istituti, dall’IEA (International Energy Agency) fino a un gruppo di esperti composto tra gli altri da analisti di Barclays e di Bloomberg, hanno stimato che nei prossimi anni non potrà essere sfruttato un ingente numero di riserve di carbone, petrolio e gas (fino ai due terzi degli esistenti). Un “taglio” impressionante per il settore delle energie fossili, per il quale è stato inoltre stimato un impatto finanziario negativo per circa 2mila miliardi di dollari di investimenti (per il carbone circa 200 miliardi tra progetti nuovi e già avviati) e di 33mila miliardi di dollari di ricavi.
Tra l’altro, il processo produttivo riguardante il settore energetico ha subito negli ultimi anni una rivoluzione che ha portato alla ribalta fonti alternative alle fossili, i cui impatto inquinante e costo di produzione sono tali da rendere quasi inevitabile il passaggio a un loro sfruttamento sempre maggiore. È così che, per citare le economie più importanti, negli Stati Uniti il carbone è stato passo dopo passo sorpassato dal gas nella produzione di energia, mentre in Cina la grande disponibilità di risorse rinnovabili ha fatto crescere con percentuali a doppia cifra la produzione da fonte solare (circa +28% nei primi sei mesi del 2016), eolica ed idroelettrica (circa +13%).
Le principali economie stanno quindi modificando la combinazione di mix energetico, allontanandosi sempre più dai combustibili fossili, carbone compreso.
Tutti questi elementi portano a dedurre che il rimbalzo dei prezzi in atto, seppur molto forte, sia destinato ad avere vita breve. L’effetto delle restrizioni imposte dal governo cinese è stato fondamentale per dare impulso alla ripresa dei prezzi, considerata l’ampiezza dell’impatto sulla riduzione dell’attività estrattiva dato dalle nuove norme; tuttavia tale effetto, così forte nell’immediato, sarà assorbito nel medio termine e il mercato si ritroverà in un quadro caratterizzato sì da offerta più bassa, ma anche da domanda che non crescerà in modo sufficiente a livello globale.
Nel lungo termine il carbone è destinato a essere sempre meno importante e lentamente abbandonato, a tal punto che c’è chi l’ha già coniato come una commodity morente o un malato terminale. Un’inversione di tendenza appare alquanto improbabile in considerazione del quadro descritto; inoltre è poco realistico immaginare che il carbone riesca a guadagnare ulteriore spazio e consenso nelle economie avanzate, che ormai sono orientate sull’utilizzo di energie pulite per favorire la tutela dell’ambiente e per rispettare gli impegni internazionali sul cambiamento climatico. Solo la domanda proveniente ancora da alcuni paesi asiatici potrà rallentare il declino, ma senza fermarlo.
Le eventuali opportunità di investimento offerte dal carbone sono quindi da considerarsi per operazioni di breve durata. Coloro che, a causa del recente rimbalzo, fossero allettati dall’idea di scommettere su un rally più duraturo o persino su una fase di mercato toro, forse farebbero meglio a rivolgere l’attenzione su commodity destinate ad avere vita più lunga.
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