Con il senno di poi è tutto più facile, anche se nell’Oil Outlook 2016 avevamo espresso i nostri dubbi circa la possibilità che i principali produttori petroliferi giungessero a qualche forma di accordo sulla produzione di greggio. Tuttavia, una domanda è d’obbligo: deve alla fine stupirci il mancato accordo all’ultimo vertice di Doha? Ebbene, no.
Riepiloghiamo gli eventi. L’eccesso di offerta sui mercati, dovuto alla produzione statunitense di shale oil e alla conseguente guerra dei prezzi innescata dall’OPEC per contrastare i nuovi produttori non convenzionali, ha portato le quotazioni di mercato ai minimi degli ultimi 12 anni, sotto la soglia dei 30 $/barile. La politica aggressiva adottata dal cartello ha avuto come conseguenza non solo una decisa riduzione delle attività di trivellazione negli Stati Uniti (si pensi che il numero delle trivelle attive è tornato ai livelli di fine 2009), ma anche un peggioramento dei bilanci statali dei Paesi che basano le proprie fortune principalmente sul petrolio. Alcuni di questi Paesi si trovano attualmente in condizioni molto critiche e non sono in grado di sopportare prezzi bassi ancora per molto; tra essi contiamo la Russia, non a caso tra i più attivi nel cercare delle soluzioni. L’esigenza di far risalire le quotazioni e far rifiatare le finanze statali si è mostrata man mano più forte. Da qui la promozione di un vertice, tenutosi a Doha il 17 aprile, che trovasse un modo per riequilibrare domanda e offerta di greggio e far crescere i prezzi.
Nel mondo del petrolio, tuttavia, non vigono solo regole di mercato; al suo interno troviamo un intreccio di interessi e rivalità politici che non possono essere trascurati. E non si deve dimenticare che da inizio 2016 è tornato in scena l’Iran, storico antagonista dell’Arabia Saudita, che con la fine delle sanzioni si sta ripresentando con la sua offerta di greggio e con l’obiettivo di riprendersi le quote di mercato che aveva prima che venisse esclusa dal commercio internazionale. Si tratta di un dato fondamentale per capire gli eventi di Doha. Teheran ha dichiarato sin dall’inizio le proprie intenzioni di aumentare la produzione petrolifera e di recuperare quote di mercato: partecipare a un accordo che prevede il congelamento della produzione ai livelli raggiunti a gennaio da ciascun Paese voleva dire bloccare sul nascere le proprie ambizioni. Non a caso da parte di Teheran un accordo di questo tipo è stato definito sin dall’inizio “una barzelletta”.
Su tali basi le prospettive di arrivare al 17 aprile con un accordo significativo erano limitate; solo le indiscrezioni circolate nelle ultime settimane antecedenti il meeting, circa una possibile esclusione dell’Iran dagli accordi di congelamento della produzione, hanno lasciato trasparire ottimismo tra gli operatori. Ottimismo (o forse sarebbe meglio dire speranza…) che ha portato il WTI e il Brent a guadagnare circa il 10% nella prima metà di aprile, oltre il 50% dai minimi toccati a febbraio.
Ciò che è accaduto al vertice ha confermato come le indiscrezioni siano state pesate troppo dal mercato. A fronte di una proposta di congelare la produzione fino al prossimo ottobre ai livelli di gennaio, l’Arabia Saudita ha preteso che tutti i componenti del cartello ne prendessero parte, Teheran compresa. La risposta è stata ovviamente negativa, e diversamente non sarebbe potuto essere, tanto che nessun rappresentante dell’Iran era presente al meeting. Così tutte le voci, le ipotesi degli ultimi mesi sono svanite, come le speranze dei mercati.
Tuttavia, quanto accaduto non dovrebbe sorprendere. I presupposti per trovare un accordo nella forma proposta oggi non ci sono mai stati, e non vi sarebbero state ragioni nè economiche nè politiche per pensare il contrario. La presa di posizione di Riyad è indicativa delle tensioni politiche con Teheran e della volontà di bloccarne la crescita sul mercato. Al contempo l’Arabia Saudita conferma come non abbia interesse a dar voce alle esigenze mostrate dagli altri produttori interni ed esterni al cartello, preferendo una guerra dei prezzi che ostacoli gli avversari, mentre si adopera per diversificare le proprie fonti di ricavo e ridurre la dipendenza dal petrolio, e riconfermi nel tempo la propria supremazia di mercato (ricordiamo che la produzione del Regno è ai massimi livelli). La verità è che congelare (magari tagliare) la produzione per far risalire i prezzi è un’esigenza dei Paesi più vulnerabili, che in casi estremi sono a un passo dal default (es. il Venezuela), ma non per i big player, che hanno le spalle abbastanza larghe per sopportare un mercato depresso senza conseguenze eccessivamente gravi, pur di mantenere (o aumentare) il proprio peso economico e politico. Dal momento che i vertici, i cartelli, sono comandati dai più forti, ad oggi non c’erano motivi reali per un accordo.
L’idea di leggere notizie positive non era forse nè ottimismo nè speranza, ma un’illusione. Ma col senno di poi è tutto più facile…

Ora cosa succederà? Ci aspettiamo innanzitutto che il mercato, dopo essere salito sulla scia di questa illusione, ritracci ben al di sotto della soglia dei 40$/barile che aveva superato nelle ultime settimane. Settimane nelle quali le valutazioni si sono allontanate dai fondamentali, che descrivono una situazione meno rosea di quella ipotizzata: l’eccesso di offerta continua a persistere, seppur la riduzione dell’attività di trivellazione nel Nord America stia progressivamente diminuendo l’afflusso di petrolio non convenzionale. L’Iran continuerà ad aumentare la produzione, bilanciando almeno in parte la riduzione statunitense, e l’Arabia Saudita, come minacciato durante il vertice, potrebbe fare altrettanto, portando il proprio output al massimo sostenibile. La conseguenza sarà un mercato nuovamente depresso, che solo lentamente si riassesterà, man mano che i produttori di shale oil (che non sono ancora in grado di sostenere investimenti con prezzi del petrolio così bassi) usciranno di scena, e i Paesi più deboli, che già sono sull’orlo del baratro finanziario, saranno giocoforza costretti a ridurre le loro attività petrolifere. Si prospetta un riassesto duro, ottenuto non con gli accordi, bensì con una guerra di prezzi (e di nervi) che non farà sconti e non risparmierà chi più degli altri le speranze sul vertice di Doha. A partire dalla Russia, che è stata tra i primi ad adoperarsi per cercare un compromesso che evitasse l’acuirsi delle tensioni sul mercato, e che ora si trova al punto di partenza.
Seguendo la legge darwiniana secondo cui sopravvive solo il più forte, i produttori più influenti (a partire dal regno saudita) continueranno a far valere la propria posizione dominante fino ad eliminare gran parte della concorrenza, in una guerra di prezzi (e di nervi) che non farà sconti.

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