Aggiungiamo qualche dato statistico che arricchisce le tinte fosche dello scenario del greggio americano. Dopo i prezzi future sotto zero, gli stoccaggi ai limiti della capacità, osserviamo il conteggio effettuato settimanalmente da Baker Hughes degli impianti attivi sul territorio statunitense. Anche in questo caso il crollo è evidente. Da inizio marzo al 24 aprile sono passati da 793 a 465. Il trend negativo, come si evince dal grafico sotto, era già iniziato nel 2019, ma quello che balza agli occhi è il collasso repentino degli ultimi due mesi: in termini percentuali è pari a -41%. Una variazione dello stesso tenore non si è mai vista negli ultimi 30 anni: nel 2015, nel mezzo di un altro periodo difficile per il mercato petrolifero, la variazione negativa massima per un pari periodo era stata del -31%, mentre nel 2009 – nel pieno della grande crisi – era arrivata al -26%.

I dati del periodo recente sono ovviamente connessi con le problematiche già citate nell’articolo “Prezzo dell’oil negativo: le cause dell’ “impossibile”“. La contrazione eccessiva dei prezzi e l’aumento continuo delle scorte stanno rendendo non solo economicamente sconveniente, ma anche insostenibile, continuare a mantenere attivi siti di trivellazione i cui costi non vengono coperti dai prezzi di vendita e il cui stoccaggio rischia di non trovare più posto, comportando un ulteriore aggravio di costi.

In particolare i produttori di shale oil americani sono i più sensibili a questo deterioramento del mercato. La tecnologia di estrazione è infatti la più onerosa attualmente, il che implica che per almeno pareggiare i costi il prezzo di mercato dovrebbe mantenersi nell’ordine dei 50-55$/Bbl. Con un WTI che non solo quota meno di 17 dollari su scadenza giugno, ma è previsto tra i 20 e i 40 dollari fino al 2024, significa per le compagnie statunitensi rischiare di coprire appena la metà dei costi di produzione per i prossimi anni. Aggiungiamoci che per avviare le attività estrattive dell’olio di scisto le stesse compagnie hanno fatto ricorso all’indebitamento bancario e all’emissione di bond, ed ecco che i costi lievitano ulteriormente: non solo quelli di produzione, ma anche quelli per interessi verso i creditori necessitano di essere coperti.

Già nel 2019 – quando i prezzi hanno viaggiato tra i 45 e i 66 dollari – stando ai dati di uno dei principali studi legali americani, Haynes & Boone, 42 società hanno fatto ricorso alle procedure fallimentari a fronte di debiti accumulati per 25 miliardi di dollari. È presumibile che altre si trovino costrette a compiere le stesse scelte con prezzi di mercato ancora più penalizzanti.

Stiamo assistendo a qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa, e che non sembra avere possibilità di cambiare radicalmente nel breve termine. In questo scenario, il settlement negativo del first future del WTI potrebbe non essere un unicum…alla scadenza del future di giugno, con stoccaggi sempre pieni e domanda globale contratta, quanti saranno disposti a comprare altri barili di petrolio? E quanti saranno costretti ancora a fermare le trivelle? Con quanti fallimenti al seguito?

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