Un detto tra gli operatori di borsa è “buy low, sell high”, ed è facile intuire quanto sia una buona regola per chi cerca la massimizzazione del profitto e per chi non vuole trovarsi in portafoglio titoli pagati un prezzo troppo alto per ottenerne un rendimento accettabile (o rischiare di averne uno negativo…). Ebbene, negli ultimi mesi questo detto sembra essere perfetto per i mercati azionari americani. Nel 2015 avevano raggiunto i massimi storici, non solo completando il recupero dal crollo patito all’inizio della grande crisi, bensì andando oltre i livelli pre-recessione.

Le ultime settimane di contrattazioni sulle piazze finanziarie hanno messo in evidenza una rinnovata linfa delle borse degli Stati Uniti: gli indici hanno non solo ritoccato, ma hanno trovato anche la spinta per superare i massimi storici realizzati l’anno scorso, segnando nuovi record. L’indice S&P500 è arrivato a quota 2.175, mentre il Down Jones ha raggiunto i 18.600 punti.

Questi risultati in parte sorprendono se vengono rapportati alle difficoltà patite negli ultimi mesi da tutti i comparti azionari e ai dati economici statunitensi, che non suggeriscono a nostro avviso un ottimismo tale da investire ancora su un mercato già sui massimi.

Ci domandiamo allora sulla forza del movimento in atto e su quanto durerà ancora questa linfa degli indici; è il caso di perpetrare nell’ottimismo o è meglio cominciare a sentire le vertigini?

Sulla base dei fondamentali, l’economia a stelle e strisce è in crescita e sta concludendo il settimo anno di ripresa economica, che non appare tuttavia priva di punti deboli. Si prenda ad esempio il PIL: dalla recessione del 2008-2009 il PIL espresso in termini reali è sempre cresciuto, ma se si osserva il tasso di variazione rispetto ai 12 mesi precedenti, si nota che questo è in rallentamento. Come si osserva dal grafico sottostante il tasso, pur essendo positivo, si è allontanato dal 2,7-2,9% dei primi due trimestri del 2015.

PILUSA

Il mercato del lavoro è uno dei fiori all’occhiello della ripresa americana e la sua evoluzione degli ultimi anni è invidiabile, soprattutto per chi guarda dal continente europeo. Il tasso di disoccupazione è sotto la soglia del 5%, sui livelli pre-crisi, e le richieste di disoccupazione (nel grafico quelle continuative) sono ai minimi.

joblessclaim

Tuttavia, altri dati mostrano un miglioramento meno marcato delle condizioni del mercato: si nota infatti che la durata media dello status di disoccupazione (espressa in mesi) è sì in calo rispetto ai picchi registrati nel 2011 e 2012 – oltre 40 mesi contro i circa 27 attuali – ma si attesta ancora sopra ai livelli antecedenti la recessione e non ha completamente assorbito l’impennata subita a partire dal 2008.

Si rileva inoltre che il tasso di partecipazione alla forza lavoro è ancora su un trend discendente, che al momento sembra solo rallentare; il calo rispetto al dato dell’anno precedente è infatti in diminuzione negli ultimi mesi, ma un’inversione di tendenza decisa non si è ancora manifestata.

datilavoroUSA

Ma uno degli indicatori che desta più preoccupazione è quello inerente la produzione industriale: dopo aver raggiunto livelli massimi a fine 2014 l’Industrial Production Index pubblicato dalla FED ha invertito la marcia e si è posizionato su una china fatta di cali quasi costanti mese dopo mese – con poche eccezioni, come l’ultima rilevazione di giugno. La rilevanza di questo indice è indubbia, dal momento che una sua crescita è sinonimo di espansione economica del Paese; la debolezza registrata nell’ultimo anno e mezzo deve quindi non passare inosservata.

Stesse indicazioni giungono dallo sfruttamento della capacità industriale, il cui andamento è anch’esso negativo da fine 2014 e, per di più, ancora sotto i livelli antecedenti il 2008; se ne denota una debolezza negli investimenti a lungo termine che, associato ai livelli produttivi assoluti, offre un quadro dell’industria americana meno roseo e più fragile di quanto sperato.

produzIndustriale

In questo contesto economico brevemente riassunto, i mercati che sembravano aver fermato la loro corsa, hanno invece trovato la forza di riaccelerare e superare resistenze che non apparivano in grado di oltrepassare. Le valutazioni dei titoli sono elevate, come dimostra anche il P/E misurato da Shiller (il CAPE ratio) che, seppur lontano dai valori dei tempi della bolla tecnologica, si sta riavvicinando ai livelli pre-crisi subprime. Attualmente, l’indice di Shiller misura 26,20, mentre nel 2007 si aggirava mediamente attorno a 26,80.

CAPE

Non va dimenticato che un ruolo determinante nel sostenere le quotazioni è ricoperto dalla politica espansiva adottata dalla Federal Reserve, le cui iniezioni di liquidità hanno aiutato non poco i listini, prima nel riprendersi dai crolli subiti, poi nel mantenere le alte vette raggiunte. Per questo la ripresa del processo di normalizzazione della politica monetaria, momentaneamente interrotto nei mesi vicini al referendum sulla Brexit, sarà un’altra variabile da monitorare per capire il futuro dell’azionario USA. Una sua accelerazione potrebbe avere ripercussioni anche importanti, tutto dipenderà da come e con quale intensità il board della Banca Centrale deciderà di operare nei prossimi mesi.

Sia le condizioni economiche reali, positive ma non troppo, sia le quotazioni di mercato – decisamente elevate – suggeriscono a chi sta pensando di investire sui mercati statunitensi di prestare molta attenzione e ponderare bene le proprie scelte. Uno degli errori più comunemente commessi dagli investitori è quello di farsi ingolosire dalle performance passate di un asset: più la performance fino a quel momento è stata positiva, più all’investitore viene voglia di comprare l’asset e partecipare al guadagno determinato dalla crescita dei suoi prezzi. Tuttavia, quando la valorizzazione di uno strumento (o di un indice) giunge a livelli massimi, è più facile che l’investitore abbia preso posizione nell’ultima fase del trend, ritrovandosi di fronte a una correzione dei prezzi, più o meno marcata, il cui effetto sarebbe opposto a quello perseguito di ottenimento di rendimenti positivi.

Al momento vediamo il mercato americano sovrastimato rispetto ai fondamentali dell’economia a stelle e strisce. Per quanto non pensiamo sia destinato a subire crolli come quelli vissuti quasi dieci anni fa, riteniamo che prendere posizione adesso presenterebbe più rischi che opportunità. In fin dei conti, il detto “buy low, sell high” non è diventato famoso per caso…

No Comment

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *