Nella nostra precedente analisi degli indici azionari statunitensi (Borse USA sempre più in alto: da vertigine?) ci siamo concentrati sulla sostenibilità dei nuovi massimi storici raggiunti, comparandone la crescita vertiginosa ai dati economici reali più significativi. La nostra conclusione è che questi livelli di capitalizzazione, da cui “cadere può significare farsi molto male”, siano difficilmente sostenibili nel lungo periodo.
È tuttavia interessante considerare, oltre ai fondamentali economici, modelli alternativi di valutazione del mercato finanziario. Due indicatori rilevanti in tal senso, sebbene slegati tra loro, sono il CAPE, ovvero il cyclically-adjusted price-earnings ratio elaborato dal premio Nobel Robert Shiller, e il cosiddetto Buffett indicator, che in una sua formulazione maggiormente intuitiva rapporta la capitalizzazione del mercato al prodotto interno lordo del paese di appartenenza (in quella “originale” la componente rapportata al gross domestic product è quella di corporate equity, registrata nel bilancio Fed alla voce B.103) prendendo il nome dal leggendario value investor che lo definì “probably the best single measure of where valuations stand at any given moment”. Se sentenziare sulla base di ratios considerati singolarmente è sicuramente poco prudente, utilizzarli come elementi complementari all’interno di una valutazione di più ampio respiro può dare indicazioni utili e più consistenti.
Lo strumento proposto da Shiller utilizza una media a 10 anni del price earning dell’S&P500, aggiustata per l’inflazione e il ciclo economico in atto: permette in tal modo di valutare l’eventuale sopravvalutazione o sottovalutazione dei corsi azionari in funzione degli utili realizzati complessivamente dalle aziende componenti l’indice considerato – eliminando al contempo le fluttuazioni derivanti dall’alternarsi dei vari cicli economici cui sarebbe soggetto il classico P/E ratio.
Per estrapolare informazioni rilevanti dall’indicatore, si consideri che valori sotto la soglia di 10 suggeriscono una potenziale fase di sottostima del mercato rispetto ai ricavi aziendali – quindi un’interessante opportunità di acquisto per gli investitori.
Ad oggi, come rappresenta chiaramente il grafico, il CAPE si aggira su livelli elevati (26,54 ad ottobre), che non venivano registrati dai tempi precedenti lo scoppio della crisi dei subprime nel 2008, dipingendo lo S&P500 come un mercato irrazionalmente caro. Considerando che la media storica (su un orizzonte temporale di 100 anni) del CAPE per il principale indice azionario statunitense si aggira intorno al livello di 17, i valori odierni suggerirebbero una sopravvalutazione pari a poco meno del 60%.
Lo scenario attuale non è del tutto anomalo: come evidenzia il grafico sottostante l’indicatore tende ad oscillare all’interno di un corridoio di valori che va da 8,5 a 34 – seguendo un moto similmente browniano che in quanto tale presenta una forte mean reversion.
Fonte: Seeking Alpha
Sebbene i tassi di interesse ai minimi siano un ulteriore variabile da tenere in considerazione dato l’impatto sui multipli di mercato che scontano yield futuri molto bassi, le caratteristiche precedentemente considerate fanno del CAPE un indicatore solido, in particolar modo se guardiamo ai momenti storici: la fase bull dei mercati statunitensi negli anni ’80 ha rappresentato una delle maggiori opportunità d’acquisto del secolo precedente, così come la bolla di fine anni ’90 una delle peggiori.
E’ corretto perciò affermare che siamo vicini ad una brusca inversione del trend per lo S&P500? Nel breve periodo le dinamiche di mercato sono difficilmente prevedibili ed il CAPE è pur sempre un indicatore basato su un multiplo di mercato; tuttavia nel medio/lungo periodo l’indicatore rientrerà con buone probabilità su valori medi (il consenus relativo al valore previsto ad un anno si aggira intorno a livelli di 22). Ne segue un probabile passo indietro delle quotazioni di mercato.
Se un premio Nobel ci consiglia di non lasciarci trasportare da un “esuberanza irrazionale” cosa potrebbe suggerire una leggenda dei mercati quale Warren Buffett? Come detto in apertura l’indicatore che prende il nome dall’oracolo di Omaha, rapportando la capitalizzazione del mercato con il PIL, può fornire spunti importanti. Attualmente il Wilshire Total Market Index to GDP – questo il suo nome originario – si aggira intorno al 120% (per la precisione è pari al 116,7%, secondo i dati aggiornati al 3/11/2016): un valore, ancora una volta, non sostenibile nel lungo periodo. Gli analisti (Guru Focus) hanno stimato, sulla base di previsioni sui tassi di interesse, della crescita della redditività aziendale e dell’indicatore in questione, un rendimento medio dell’azionario USA atteso per i prossimi 8 anni pari allo 0,7%, compresi i dividendi; considerando un dividend yield che ad oggi è pari al 2,07%, significa prevedere una discesa di almeno il 2% del mercato azionario nel prossimo anno. Ancora una volta si tratta di una previsione che attribuisce un peso rilevante ad un singolo indicatore, che però restituisce lo stesso segnale: il margine di crescita sembra vicino a zero.
Nel corso degli ultimi quarant’anni l’indicatore ha oscillato in maniera significativa passando dai valori minimi (35%) del 1982 ai massimi (137%) toccati con la dotcom bubble del 2000; i livelli attuali possono rappresentare quindi un campanello di allarme da non sottovalutare.
L’analisi dei due indicatori di Shiller e Buffett ci porta a confermare quanto concluso nel precedente lavoro eseguito sulla base dei fondamentali economici reali: ad oggi un investimento sull’azionario statunitense presenta maggiori rischi che opportunità, con i connotati del più classico dei bias comportamentali.
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