Che i prezzi delle asset class – si tratti di azioni, obbligazioni, tassi di cambio o commodity – non seguano sempre solo le logiche di mercato è ormai noto. Accade infatti che le dinamiche di un determinato settore o prodotto vengano influenzate anche da scelte di carattere politico che le sole condizioni di mercato non giustificherebbero (perché la politica non fa parte del mercato??). Scelte dal peso specifico limitato o rilevante. Un esempio eclatante degli ultimi tempi proviene dal mondo delle materie prime, nello specifico dall’acciaio. Il valore di questa commodity è crollato nell’ultimo anno e mezzo (-80%); i prezzi sono passati da 500$/Tonnellata di inizio 2015 a 100$/Tonnellata a giugno 2016 – salvo poi rimbalzare e riportarsi in area 300$ – seguendo un copione equivalente a quello, tra gli altri, del petrolio e del carbone (di seguito le quotazioni sul London Metal Exchange). Anche in questo caso le cause derivano da un eccesso di offerta sul mercato determinato sia dal calo della domanda sia dall’aumento della produzione.
Al pari di quanto osservato in altre situazioni, il protagonista di questa storia è la Cina, per la sua influenza sia sulla domanda sia sull’offerta della commodity Nel primo caso per molti anni la crescita a doppia cifra del paese del dragone ha determinato una robusta richiesta di materie prime – come conseguenza della politica governativa il cui fine era l’aumento dell’occupazione e degli investimenti. Oggi, tuttavia, la situazione è drasticamente cambiata: la Cina si trova ad affrontare una trasformazione strutturale della propria economia, che si sta muovendo verso un modello di crescita basato sui consumi interni e lo sviluppo di una classe media che sia in grado di sostenerli; è inoltre probabile che la crescita del PIL attorno all’attuale +6,5% diventi la norma per i prossimi anni. Ciò comporta una riduzione significativa della domanda da un paese che fino ad ora è stato uno dei maggiori utilizzatori di commodity, a maggior ragione in un contesto di debolezza globale. Secondo le previsioni della World Steel Association, infatti, nel corso del 2016 si assisterà ad una flessione della domanda da 1.500,1 a 1.487,7 milioni di tonnellate. Tale riduzione interessa in particolar modo le economie asiatiche e gli stati dell’ex Unione Sovietica; rimarca inoltre l’importanza dell’economia cinese, nonché l’impatto negativo del suo rallentamento.
Il problema che desta più preoccupazione nasce tuttavia nella generazione dell’offerta di acciaio, ossia il significativo eccesso di capacità produttiva nell’industria siderurgica. Anche in questo caso la Cina è l’imputato principale: la sua produzione – 466 milioni di tonnellate da gennaio a luglio 2016 e 804 milioni nel 2015 (fonte Word Steel Association) – vale quasi la metà di quella mondiale (circa 930 milioni di tonnellate a luglio 2016 e 1.600 milioni in tutto il 2015).
Allo stesso tempo, nella regione asiatica anche altri paesi hanno avviato un’attività produttiva intensa: l’India ha portato il proprio output a luglio a 8 milioni di tonnellate – in crescita rispetto ai 7,5 milioni mediamente registrato nel 2015 – mentre la Corea del Sud ha registrato un aumento a 6 milioni rispetto ai 5,8 milioni di tonnellate medi dell’anno precedente. Fenomeni di crescita che tuttavia nei valori assoluti rimangono molto distanti dai dati cinesi.
Ne deriva un problema di overcapacity del settore quantificabile a livello globale tra i 400 ed i 700 milioni di tonnellate, di cui oltre 300 provenienti dalla Cina. Un surplus notevole, che trova sfogo nelle esportazioni verso l’Europa e gli altri paesi, con conseguenze negative per i produttori interni delle nazioni importatrici. I dati cinesi mostrano che i flussi verso l’Unione Europea sono cresciuti del 28% nel primo trimestre 2016, contro una discesa dei prezzi pari al 31%.
Gli effetti per i mercati e il settore sono pesanti: le quotazioni hanno raggiunto livelli molto bassi e limato i margini di redditività aziendali, mettendo all’angolo i produttori che devono mantenere livelli di profittabilità sufficienti e competere con le ingenti quantità di acciaio importate dall’estero; trovandosi costretti a ridurre costi e debiti, nonchè a migliorare l’efficienza della produzione.
A seguito delle problematiche globali generate, la sovrapproduzione cinese è diventata un tema caldo anche a livello politico: è ad esempio uno degli argomenti principali nel processo di valutazione da parte dell’Unione Europea dello status di economia di mercato della Cina. La maggior parte della produzione di acciaio è infatti controllata da aziende di stato che vengono sovvenzionate con l’obiettivo di produrre più output di quanto le regole di mercato suggerirebbero; ciò comporta l’afflusso di un eccesso di materia prima sui mercati mondiali, che ne alimenta gli squilibri, oltre che il mantenimento di impianti ormai inefficienti.
Il tema ha tenuto banco anche nel corso dell’ultimo G20 tenutosi a Hangzhou, soprattutto per volontà degli Stati Uniti. Gli squilibri generati dalle scelte politiche cinesi hanno innalzato il livello di tensione commerciale con le altre nazioni. Il risultato ottenuto dal G20 si può sintetizzare in due passi: la dichiarazione della Cina di voler tagliare la produzione di 150 milioni di tonnellate fino al 2020 e la decisione dei paesi partecipanti al vertice di costituire un forum globale gestito dall’OCSE con la finalità di monitorare l’evoluzione del mercato globale. Non sembrano tuttavia risultati degni di nota, o quantomeno capaci di portare effetti benefici in tempi brevi. Nel primo caso, a fronte di un surplus di oltre 300 milioni di tonnellate, la dichiarazione di intenti della Cina riguarda una quantità ancora troppo limitata, considerato il contesto di debolezza della domanda globale (oltretutto prevista in diminuzione), che non aiuterà a ridurre il gap con l’offerta. Nel secondo caso, si prende atto della presa di coscienza di un problema che sta affliggendo il settore siderurgico a livello mondiale e che nasce non da dinamiche di mercato, bensì da decisioni politiche che hanno generato i forti squilibri attuali; ma non si vedono ancora decisioni che si traducono in azioni pratiche e decise verso il perseguimento di un riequilibrio del sistema.
La questione dell’overcapacity è un problema serio a cui non vi è una soluzione semplice. Quello dell’acciaio è il caso di una commodity e di tutto un settore che sono stati influenzati non solamente dall’evoluzione dell’economia globale e dal movimento della domanda e dell’offerta, bensì (e soprattutto) da decisioni di carattere politico di grandi nazioni – in questo caso una in particolare – che trascendono dalle regole di mercato e creano squilibri la cui soluzione va ricercata nei processi diplomatici prima ancora che nel mercato stesso. Sembra inoltre difficile aspettarsi che venga trovata una quadra dei problemi in tempi brevi. Questa dipendenza dalla politica rende l’acciaio poco attraente in ottica di investimento ed è difficile ipotizzare un trend positivo a lungo termine per le quotazioni. La debolezza della domanda e l’eccesso di produzione della Cina metteranno ancora sotto pressione i prezzi dell’acciaio, destinati a mantenersi su livelli bassi. A meno che la politica e le relazioni diplomatiche non riservino qualche sorpresa…
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